Dante – Inferno XXXIII – Alberto Rossatti

 

 

 In picciol corso mi parieno stanchi

  lo padre e ' figli, e con l'agute scane

mi parea lor veder fender li fianchi.

  Quando fui desto innanzi la dimane,

pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli

ch'eran con meco, e dimandar del pane.

    Ben se' crudel, se tu già non ti duoli

pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;

e se non piangi, di che pianger suoli?

  Già eran desti, e l'ora s'appressava

che 'l cibo ne solea essere addotto,

  e per suo sogno ciascun dubitava;

  e io senti' chiavar l'uscio di sotto

a l'orribile torre; ond'io guardai

nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

  Io non piangea, sì dentro impetrai:

  piangevan elli; e Anselmuccio mio

disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".

  Perciò non lacrimai né rispuos'io

tutto quel giorno né la notte appresso,

infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

    Come un poco di raggio si fu messo

nel doloroso carcere, e io scorsi

per quattro visi il mio aspetto stesso,

  ambo le man per lo dolor mi morsi;

ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia

  di manicar, di subito levorsi

  e disser: "Padre, assai ci fia men doglia

se tu mangi di noi: tu ne vestisti

queste misere carni, e tu le spoglia".

  Queta'mi allor per non farli più tristi;

  lo dì e l'altro stemmo tutti muti;

ahi dura terra, perché non t'apristi?

  Poscia che fummo al quarto dì venuti,

Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,

dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".

    Quivi morì; e come tu mi vedi,

vid'io cascar li tre ad uno ad uno

tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,

  già cieco, a brancolar sovra ciascuno,

e due dì li chiamai, poi che fur morti.

  Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».

 

 

 

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