Wisława
Szymborska
Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
Come ogni caso.
In fondo avrei potuto
avere
altri antenati,
e così avrei preso il
volo
da un altro nido,
così da sotto un altro
tronco
sarei strisciata fuori
in squame.
Nel guardaroba della
natura
c’è un mucchio di
costumi: di
ragno, gabbiano, topo
campagnolo.
Ognuno calza subito a
pennello
e docilmente è
indossato
finché non si consuma.
Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un
formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di
paesaggio sbattuta dal vento.
Qualcuno molto meno
fortunato,
allevato per farne una
pelliccia,
per il pranzo della
festa,
qualcosa che nuota
sotto un vetrino.
Un albero conficcato
nella terra,
a cui si avvicina un incendio.
Un filo d’erba
calpestato
dal corso di
incomprensibili eventi.
Uno nato sotto una
cattiva stella,
buona per altri.
E se nella gente
destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?
Se al mondo fossi
venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le
strade precluse?
La sorte, finora,
mi è stata benigna.
Poteva non essermi dato
Il ricordo dei momenti
lieti.
Poteva essermi tolta
L’inclinazione a
confrontare.
Potevo essere me stessa
– ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente
diverso.